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Il magico mondo di Antonio Aricò.

Antonio Aricò, foto di R.Scibetta

Con questo nuovissimo viaggio vi presentiamo la prima intervista realizzata per questa piattaforma con questo designer radicato nel Mediterraneo.

 

Con Davide Chiesa di Design Tellers abbiamo incontrato Antonio Aricò nel suo studio milanese una mattina d inizio marzo e gli abbiamo posto alcune domande sulla sua estetica e sul suo senso del design, circondati dagli oggetti che popolano le sue stanze e raccontano storie di tradizione e cultura popolare.


DT – Ciao Antonio e grazie mille per averci fatto entrare nel mondo Aricò. La prima domanda che vorrei farti e la mia più grande curiosità è parlarci di questo mondo che esprimi e che è fortemente legato all’ambiente mediterraneo, al concetto di radici culturali ed estetiche legate alla terra.

AA – La discussione sul Mediterraneo per me è legata a una questione di origini, radici ed entità.

Da giovane ho lasciato la mia terra natale, la Calabria, per studiare design industriale a Milano dove ho avuto la fortuna di incontrare la mia grande passione che poi ho approfondito viaggiando per il mondo e studiando in diverse situazioni.

La discussione sul Mediterraneo è strettamente legata a un aspetto di autenticità e onestà del design.

Uno studioso creativo che inizia ad avvicinarsi al mondo del design nota di essere facilmente influenzato dalle tendenze storiche culturali e contemporanee, quindi la mia idea era quella di portare una rivoluzione contro gli schemi imposti e cercare di seguire l’istinto di essere onesto dal punto di vista vista di progettazione.




casa di Antonio Aricò

Foto di  Maria Teresa Furnari




Ambiguità per scelta: Tradizione e innovazione

DT – All’interno delle tue opere troviamo precisi riferimenti culturali che ci riportano ad epoche passate e ci fanno pensare alle storie degli eroi Omero dell’Iliade, della Magna Grecia e degli Olimpi. Ma c’è anche una poetica attuale che richiama alcune creazioni di Riccardo Dalisi e quel design contemporaneo che celebra l’effimero. Come gestisci due influenze così apparentemente contrastanti nella gestione del progetto?

AA – Questo è esattamente lo stimolo che alimenta la mia giornata creativa, questa continua ambiguità tra tradizione e innovazione. Inizialmente questa esigenza di raccontare la storia era strettamente legata al concetto di famiglia, artigianato e tradizione.

Nella mia famiglia d’origine mio nonno è falegname e mio zio cuoco, quindi sono cresciuto in un ambiente permeato dai concetti di genuinità e qualità.

Con mio nonno ho iniziato a ricreare nel suo laboratorio una serie di archetipi comuni non solo alla cultura mediterranea ma a quella italiana in generale, partendo da un concetto molto semplice e quotidiano: il volgare. Successivamente sono stato influenzato dal mondo milanese, dalla moda, dal design, dall’arte e ho sviluppato un gioco poetico di protesta, un gioco in cui posso essere sia contro che con, un gioco di equilibri instabili e in continua evoluzione. Il mio gusto estetico personale mi porta a prediligere soggetti semplici, materiali puri come legno, terracotta, ceramica, lino, lana, a cui associo un mondo decorativo di illustrazione pop perché anche in questo processo cerco di essere onesto con me stesso.

Chi visita la Calabria nota subito la presenza di grandi riferimenti all’antica Grecia, non solo dal punto di vista naturalistico e paesaggistico ma proprio a livello di tradizioni e superstizioni quotidiane.

Ci sono ancora alcuni piccoli paesi dell’entroterra dove si parla il greco antico e il grecanico, e questi sono elementi reali e quotidiani, essenziali: terracotta, ceramica, lino, lana, a cui associo un mondo decorativo di illustrazione pop perché anche in questo processo cerco di essere onesto con me stesso.




Nonno Saverio e Antonio Aricò, foto di F.Zaminga

Nonno Saverio e Antonio Aricò, foto di F.Zaminga

 
Tecnica progettuale reinterpretativa

DT – Sei un designer e un artista del terzo millennio e ovviamente comunichi anche attraverso i social media: oltre alla produzione dei tuoi progetti di volta in volta dai tuoi canali social, suoni bonariamente l’orecchio al design mainstream e reinterpretare oggetti iconici di Starck, Magistretti, Bridges. Come ti rapporti con questo tipo di disegno industriale che ci ha preceduto e in qualche modo ci ha costretti a relazionarci con quell’esperienza?

AA – Mi sento un designer industriale a tutti gli effetti, ho un background tecnico, trovo piacere nel rispondere ai brief aziendali, collaborare con il marketing e coniugare un discorso umanistico e poetico con un discorso aziendale, perché se invece io davvero come il mondo decorativo, d’altra parte il mio vero lavoro è rispondere a brief di design.

Sui miei canali social sono meglio conosciuto per questo campo narrativo e poetico, mi sono fatto conoscere grazie a queste storie molto utopiche e interagisco con un lavoro che tratta dell’inconscio e della psiche. L’altra faccia della medaglia è quella che mi ha permesso di lavorare per molti anni con grandi multinazionali come Barilla o Mulino Bianco per le quali ho disegnato prodotti che possono essere presenti nelle case italiane ma che nessuno sa che ho realizzato.

Nella mia visione artistica questo è il vero lavoro del designer, che non ha bisogno di creare un fascino particolare attorno alla sua attività perché si esprime attraverso un design reale e domestico; la parte narrativa invece è un vero e proprio laboratorio di ricerca e sviluppo, è il momento in cui realizzo la mia visione. Credo fermamente che solo se sei completamente immerso nella contemporaneità puoi essere affascinato da qualcosa che si presenta come esotico e distante.




Foto di Lorenzo Pennati | Styling di Bruno Tarsia

 

Direstione artistica materiale

DT – Vorrei che mi parlassi della tua attività come art director del Materia design festival di Catanzaro. Cosa significa curare la direzione artistica di un festival del design in un’area come quella della Calabria, geograficamente così lontana dagli ambiti canonici di ideazione e produzione del cosiddetto design “classico”?

AA – Quando sono stato invitato per la prima volta come ospite a questo festival quattro anni fa, mi sono ritrovato inaspettatamente in una vera e propria Design Week a Catanzaro. Dopo quella prima esperienza come designer, gli organizzatori mi hanno invitato dopo due anni a occuparmi della direzione artistica del Festival. Abbiamo trovato subito l’accordo perché all’interno di quel festival posso esprimere il mio gusto estetico.




Foto di  Maria Teresa Furnari

Siamo abituati ad associare luoghi del design a città come Milano, Berlino, Shanghai, Parigi e New York ma per me, proprio dall’esperienza maturata in laboratorio con mio nonno, è nata quella concezione del dietro le quinte, degli artigiani che funzionano ancora a mano alcuni tipi di oggetti.

Sebbene Catanzaro sia considerata forse la città più brutta d’Italia, per me la sfida è stata trovare un senso estetico generale all’interno di un territorio che non è abituato a un festival di design. L’adrenalina che ti regala un’esperienza di questo tipo è indescrivibile, parlando anche in termini di persone, materiali, suoni, accenti, tradizioni, odori e sono davvero molto contento di aver accettato questa avventura.




Foto di  Maria Teresa Furnari

 
 
 

Illustrazione come narrativa del prodotto

DT – Ho molto apprezzato la recente collaborazione con Callipo per il confezionamento di una confezione di panettone. È un progetto che costruisce un lunghissimo ponte che attraversa tutta l’Italia e unisce in modo potente nord e sud. Pur non occupandosi principalmente di prodotti dolciari, Callipo ha realizzato questo progetto: ci racconti la storia di questa collaborazione e come si è sviluppata?

AA – Durante il periodo del lockdown dello scorso anno, sono stato rinchiuso a lungo in casa mia e ho fatto una riflessione che mi ha portato più dal lato del graphic design che dal lato del product design.

L’illustrazione grafica è un tema che mi viene naturale ma che avevo un po’ accantonato perché come designer ho sempre utilizzato il disegno per creare schizzi funzionali alla creazione di oggetti.

In un periodo in cui il soggetto era bloccato dal punto di vista organizzativo, la grafica poteva invece essere espressa liberamente. Attraverso la fusione di uno storytelling preciso, l’uso della stampa su materiali diversi, la narrazione con colori naturali abbinati a quelli pop, questa collaborazione si è sviluppata in modo molto felice e tra l’altro è stata la prima collaborazione con un’azienda calabrese.

È stata quindi un’altra occasione per provare a cambiare un po’ l’approccio progettuale perché normalmente il sogno dei giovani designer è quello di progettare per aziende come Alessi, Kartell, Flos. Ad esempio, alcuni dei miei sogni di studente di design si sono avverati e altri no, ma il fatto di decidere di andare sempre controcorrente è stata una grande sfida. Questo tipo di approccio può dimostrare un lato diverso del design aziendale e può costituire un esempio per le generazioni successive.

Ricevo molti feedback da designer calabresi che mi dicono di essere tornati a lavorare al telaio o con materiali poveri o su progetti legati alla tradizione. E per me questo è lo stimolo più grande.

WEBSITES: Design Tellers | Antonio Aricò | Davide Chiesa

Foto di copertina di R.Scibetta